I dialetti sono lingue?

Come dice Luca Serianni: “La distinzione tra dialetto e lingua è del tutto convenzionale. Anche il dialetto è in realtà una lingua: lo dimostra il fatto che alla base dell’italiano c’è un dialetto – il fiorentino – elevato poi a lingua nazionale. La differenza consiste soltanto nella più limitata diffusione del dialetto rispetto alla lingua e nella sua minore importanza politica (per esempio, non si parla di dialetto a proposito della lingua ufficiale di una nazione), spesso collegata a un minore prestigio sociolinguistico“.

Il dialetto è da molti considerato “socialmente più basso” della lingua nazionale, ma è davvero così? Si pensi alla nostra letteratura: dalla Scuola siciliana di Cielo d’Alcamo del ‘300, a Dante, Petrarca e Boccaccio per il fiorentino (poi assurto a lingua nazionale), al veneziano di Goldoni, al napoletano di Eduardo De Filippo e ancora nuovamente al siciliano di Giovanni Verga e del più recente Andrea Camilleri. Culturalmente i dialetti hanno costituito e costituiscono ancora un’immensa ricchezza per la nostra lingua.

E quindi come sostiene il Serianni non è l’importanza culturale, ma quella socio-politica a conferire ai dialetti un rango inferiore rispetto a una lingua nazionale.

Personalmente, sin dai primi anni dei miei studi linguistici, ho sempre trovato molto interessante indagare i rapporti tra il mio dialetto, il siciliano, e le altre lingue nazionali.

Inutile negarlo, ogni siciliano che si rispetti, a contatto con altre lingue, riesce a captare qualcosa che sembra aver già sentito, ma cosa? 

Il siciliano racchiude in sé una matrice appartenente a gruppi di lingue diverse tra loro. Il bagaglio culturale che ne esce è variegato, sfaccettato e dà forma a una lingua vera e propria, con un sistema fonetico e una grammatica ben precisa. Le influenze delle diverse dominazioni sulla Sicilia hanno fatto sì che la lingua ne uscisse come un puzzle completo, riunendo sotto un unico gruppo tutte le influenze (araba, normanna, francese, aragonese, catalana, castigliana, latina, greca, italiana).

Forse l’influenza più forte sul siciliano è stata esercitata dalla lingua spagnola, si pensi ad esempio ad alcuni termini:

abbuccari – cadere, capovolgere, inclinare (da abocar, “capovolgere”, “versare”)
accapari o accabbari – concludere, finire (da acabar presente sia in catalano che in castigliano)
accupari – soffocare (da acubar)
addunarisi – accorgersi (da adonar-se)
anciova – acciuga (da anxova)
arricugghìrisi – rientrare, ritirarsi (da recollir-se)
arriminari – mescolare (da remenar)
banna in forme composte come ddabbanna, ccabbanna – di là, di qua (da banda nel significato di “parte”, sia in catalano che in provenzale)
capuliari – tritare (da capolar, presente sia in catalano che in castigliano)
cascia – cassa (da caixa)
muccaturi – fazzoletto (catalano: mocador; voce presente anche in spagnolo, ma molto meno usata)
nzirtari – indovinare (da acertar)
stricari – strofinare (da estregar)

o ancora:  ajeri – ieri (da ajer), cucchiara – cucchiaio (da cuchara), curria – cinghia (da correa), isari – alzare (da izar), lastima – lamento (da lastima), palumma – colomba (da paloma), pignata – pentola (da piñata), simana – settimana (da semana). E l’elenco potrebbe ancora continuare…

Non trascuriamo i dialetti …

… sono la nostra linfa vitale, il nostro legame con il passato e con le nostre origini. Parlarli o leggerli ogni tanto non significa appartenere a un rango sociale più basso, ma semplicemente ricordarsi da dove veniamo culturalmente.

 

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